Quanto la fortezza non serve più

comunicato

Quanto la fortezza non serve più

Per rispondere in modo assennato all’ondata di emigrazione di queste settimane e di questi giorni dalla Tunisia verso l’Europa e l’Italia in primo luogo, occorre chiedersi che cosa è successo davvero sulla sponda sud del Mediterraneo. Le rivolte che hanno portato alla caduta dei governi in Tunisia e Egitto, e alla sostanziale delegittimazione di quelli libico e siriano, cui si aggiunge quello dello Yemen, derivano innanzitutto dall’apparire sulla scena di questi paesi di una generazione di giovani che – come sottolineato da molti commentatori – sono determinati a vivere un futuro diverso da quello che si credeva essere già stato scritto. I flussi di informazione e di conoscenza sono alla base di questo ribellarsi: le nuove generazioni non sono più disposte a sottostare a un potere che si regge sull’autoritarismo, la violenza, il clientelismo. Le nuove tecnologie di comunicazione hanno contribuito a precarizzare le “regole di regime” e hanno permesso ai giovani di esprimere e allo stesso tempo costruire il cambiamento. Le donne sono diventate protagoniste della rivoluzione dei gelsomini come a Tahrir Square, e non ci stanno più a restare in secondo piano, anche se c’è chi continua a provare a ricacciarle indietro. Bastano questi due elementi per suggerire la portata di quello che è cambiato e che sta cambiando. Con la loro gestione patrimoniale dello Stato, i regimi che hanno governato fino a ieri hanno soffocato il potenziale che esiste in questi paesi. Invece è bene tener presente che dal Marocco alla Siria si tratta di un mercato potenziale di 200 milioni di persone che da anni attende una diversa ripartizione delle risorse per diventare un mercato reale. Una volta avviata, la costruzione di una società più democratica e dunque più equa trasformerà l’emigrazione da sola alternativa per la sopravvivenza propria e di quella di chi ci si lascia alle spalle, a una tra le scelte possibili. La storia dell’”idraulico polacco” dovrebbe aver insegnato qualcosa sulla relazione tra democrazia, emigrazione e sviluppo. Egitto, Tunisia, Algeria sono addirittura destinati a trasformarsi in paesi di immigrazione, così come già oggi il Marocco è paese di immigrazione per mauritani, senegalesi, maliani.

Il paradigma “più sviluppo per meno migrazione” non ha funzionato, ma non è stato applicato nemmeno quello della “migliore migrazione per più sviluppo” su cui l’Unione Europea ha puntato dalla metà degli anni 2000 dopo essersi resa conto di quanto necessari sono gli immigrati per il proprio stesso sviluppo. Le politiche migratorie hanno continuato e continuano ad essere centrate sulla visione dell’Europa come fortezza assediata dai clandestini, dai quali è necessario difendersi per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, con il risultato che l’industria dell’immigrazione irregolare è sempre più florida e che molti immigrati regolari sono costretti a passare nell’area dell’irregolarità, facendo crescere il lavoro nero, informale o illegale. Con un’impostazione di questo tipo, le misure che si prendono non possono che essere orientate a bloccare gli arrivi. E così è stato, soprattutto nei paesi del Mediterraneo, Grecia, Italia e Spagna, dove si è investito esclusivamente per rafforzare i controlli e assicurarsi la collaborazione dei paesi della sponda sud nella lotta all’immigrazione clandestina. Il budget di Frontex, l’agenzia europea per la gestione, meglio sarebbe dire la lotta all’immigrazione, è passato dai 6 milioni di euro del 2005 a quasi 90 milioni nel 2009, la gran parte dei quali impegnati per le operazioni di pattugliamento congiunto del Mediterraneo. Siglando accordi con i regimi oggi al capolinea, si sono barattati aiuti economici in cambio dell’impegno a trattenere i migranti fuori dall’Europa e a riprendersi quelli che riuscivano a partire. I migranti hanno cominciato presto ad essere utilizzati come strumento di diplomazia parallela, per obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con loro, uno su tutti il caso della Libia che nel 2004, in cambio di questo ruolo di baluardo contro i flussi migratori verso l’Europa ha ottenuto la fine dell’embargo sulle armi. Poco importa se tutto ciò avveniva a discapito della tutela dei diritti umani dei migranti – come è stato ampiamente documentato – o delle stesse popolazioni dei paesi nordafricani, come poi si è verificato.

Ora in quel “muro” faticosamente eretto dall’Europa nel Mediterraneo si è aperta una falla. Coloro che arrivano sulle coste dell’UE non sono profughi ma quei migranti privi dello status richiesto per l’ingresso che si volevano tenere fuori. I numeri non sono epocali, ma non si sa come, e non si vuole, gestire la situazione perchè ogni forma d’accoglienza – doverosa in paesi sviluppati, civili e democratici come si vogliono quelli europei – comporta un radicale ripensamento delle politiche migratorie, una rimessa in discussione dell’ossessione securitaria, una tacita ammissione che il mito dell’”immigrazione zero” non è perseguibile. Ci troviamo quindi in una situazione di stallo nella quale il “non intervento” sul fronte arrivi si contrappone ad una frenetica attività diplomatica per cercare di a ristabilire i vecchi accordi con i nuovi interlocutori. I governi provvisori nella sponda sud del Mediterraneo devono però rendere conto ai movimenti democratici che hanno portato alla loro formazione, e non è pensabile che il ruolo di sentinelle anti-migrazioni possa essere riproposto, né che l’Europa possa riproporlo, con il rischio di sospingere a un ritorno al passato i governi nati dalla domanda di democrazia che si è espressa in questi mesi e settimane.

Nel contempo, i governi locali sono comunque chiamati a attivarsi per far fronte alla presenza degli immigrati e rispondere alla loro “domanda di città”, cioè avere una casa, poter accedere ai servizi fondamentali, disporre di spazi dove incontrarsi, giocare, pregare. Una domanda di città che il più delle volte non coincide con quella della popolazione locale e che dunque richiede risposte che non possono essere univoche. Che lo vogliano o meno, i governi locali sono attori centrali nella gestione degli effetti della globalizzazione sui territori locali, il loro sviluppo e le loro popolazioni. Di fatto sono i governi locali ad essere chiamati a rispondere all’emergenza immigrazione di questi giorni; a loro viene chiesto il via libera per la costruzione di campi di accoglienza mentre il governo nazionale si occupa di stilare accordi di respingimento con i paesi di provenienza. Lampedusa è un esempio clamoroso, ma non è certamente l’unico, basta ricordare Ceuta, Algeciras, Crotone, Samos o Rodi. Ma è anche la popolazione locale che deve attrezzarsi a gestire la diversità, a normalizzarla invece che farne un problema, gettando le basi per una società e delle città interculturali. Anche in questo caso, la risposta degli abitanti di Lampedusa a un’emergenza, che con ogni probabilità poteva non diventare tale, è andata ben al di là di quello che ci si poteva attendere.

Non ci si può rallegrare del nuovo vento di democrazia che spira sulle coste del Mediterraneo e allo stesso tempo respingere chi, finalmente liberatosi da decenni di ruberie e oppressione di stato si sente finalmente legittimato a cercare anche per se stesso una vita migliore, un po’ più di benessere, quanto meno la speranza di ottenerlo. L’Europa, e con essa l’Italia non può che muoversi sulla linea di una serie di misure di breve periodo di carattere umanitario per accogliere dignitosamente l’immigrazione di oggi, e una politica di sostegno aperto al processo di democratizzazione che si è appena avviato. Bisogna essere consapevoli che si tratterà di un processo non breve, irto di contraddizioni che occorrerà governare, e di arretramenti cui occorrerà invece opporsi con decisione. Perché ciò che oggi è locale è allo stesso modo fortemente connesso con altri “locali” nel mondo. Perché quello che si farà qui determinerà fondamentale quello che accadrà lì.

Cattedra Unesco SSIIM – Università Iuav di Venezia

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